di Caterina Rossi Cairo
__ Germogli ha chiesto un articolo a Caterina Rossi Cairo, mamma di due ragazzi che frequentano la scuola Steiner-Waldorf e collaboratrice della giovane Scuola Steineriana “Intorno al melo” di Novi Ligure. Coscientemente Caterina ha scelto di far nascere e crescere i propri figli in campagna, nel territorio delle colline del Gavi. Questa scuola prende vita nel 2005 all’interno del progetto pedagogico dell’associazione onlus “Intorno al melo” volto a promuovere la pedagogia steineriana. In una cascina della Raia la pedagogia steineriana si sposa alla campagna dapprima offrendo ai bambini più piccoli dell’asilo la possibilità di godere dell’ambiente sano, ricco e silenzioso delle colline del Gavi e dal settembre del 2010 allargando questa opportunità alle classi di un ciclo per ora prima/quinta.
Oggi ci sono problemi, la loro risoluzione porterà altri problemi.
Proverbio Cinese
E nessun alto ideale o obiettivo può essere raggiunto altrimenti che con un po’ di fatica, un po’di dolore, resilienza e molta perseveranza.
La vita tende a confermare il proverbio cinese che ci suggerisce di accettare (e non rifiutare) il fatto che essa in un certo senso sia un susseguirsi di piccoli e grandi problemi, da risolvere uno dopo l’altro. Il detto tra le righe ci dice anche che è una mera illusione la speranza di svegliarsi un giorno senza più problemi da risolvere o senza difficoltà da superare.
Partendo da questo presupposto, la resilienza (dal latino re-salire, saltare indietro-rimbalzare) diventa una qualità di grande aiuto, il cui sviluppo merita la nostra attenzione.
Persone resilienti sono coloro che immerse in circostanze avverse riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare con un atteggiamento positivo le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e a raggiungere mete importanti e obbiettivi sfidanti. La persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile.
Di fatto l’individuo resiliente legge gli eventi negativi come momentanei, circoscritti ma inevitabili e parte integrante dell’esistenza; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda. Per lui i cambiamenti e le difficoltà sono un’opportunità, piuttosto che una minaccia.
L’adulto resiliente di fronte a sconfitte e frustrazioni è capace di non perdere comunque la speranza.
Il bambino resiliente quando inciampa, cade e si rialza e, con nuovo slancio, continua a correre.
Le forze o le debolezze che piano piano nascono e si sviluppano nella nostra interiorità, sono sempre il risultato di un’attività che consapevolmente o inconsapevolmente abbiamo ripetuto nel tempo. In Italia, fino agli anni Cinquanta la vita stessa garantiva ai giovani la possibilità di sviluppare questa forza interiore: in città come in campagna le occasioni di faticare, di soffrire per un desiderio insoddisfatto, erano molteplici. I bambini camminavano per andare a scuola, svolgevano quotidiani lavori utili alla vita domestica o alla comunità in cui vivevano. In molte famiglie il gioco e lo svago erano accompagnati da responsabilità proporzionali all’età.
L’opposto della resilienza è l’indolenza
Oggi l’organizzazione sociale della città e la vita fisicamente confortevole e comoda ha la naturale tendenza a “ovattare” i bambini ed a precludere loro molte esperienze formative. I bambini viaggiano in auto o con i mezzi pubblici, frequentano la scuola, fanno lezioni di musica e praticano sport. Il dolore fisico è tabù. Negare ai figli la soddisfazione dei loro desideri è considerato crudele. Raramente è permesso ai bambini prendere rischi e sperimentare i limiti delle proprie capacità fisiche: le sfide, i pericoli, le fatiche fisiche sono state rimosse dalla quotidianità dell’infanzia e molto raramente sperimentate dai bambini. La conseguenza naturale è l’apparire nell’anima di un atteggiamento apatico, indolente, svogliato e pigro.
Nelle scuole Waldorf anglosassoni, la domanda “come possiamo educare giovani resilienti” è in questi ultimi anni ampiamente discussa. I maestri constatano che c’è un numero sempre crescente di bambini che, educati con eccessiva protezione e indulgenza, vivono come un’aggressione violenta e intollerabile ogni piccola sofferenza fisica prodotta dall’esterno e sono molto poco adattabili alle circostanze. Sono bambini molto esigenti. Essendo stati troppo protetti dalle cure materne, quando incontrano delle difficoltà sono eccessivamente vulnerabili, spaesati e incapaci di reagire creativamente. Hanno costantemente bisogno di aiuto anche quando potrebbero tranquillamente farne a meno. Nella lingua inglese c’è un’espressione che descrive l’opposto di un bambino resiliente: il termine “cotton wool child”. È l’immagine di un bambino che, avvolto da uno spesso strato di morbido cotone, non sbatte contro alcuno spigolo: non entra in relazione con alcuna sofferenza o difficoltà.
È una scelta
Oggi lasciare che i nostri bambini incontrino quotidianamente delle piccole fatiche e sofferenze è una scelta che richiede ai genitori discernimento, consapevolezza e soprattutto decisione. Il discernimento serve a capire quale tipo di esperienza può essere formativa e quale invece potrebbe mortificare l’anima del bambino provocando incertezza o paura. “Cosa posso chiedergli oggi?”. Questa domanda se formulata costantemente durante la crescita dei bambini porterà sempre nuove risposte, man mano che i bambini attraverseranno le diverse fasi di sviluppo e acquisiranno le relative capacità.
A un bambino di un anno posso chiedere di aspettare che tutti abbiano fatto un canto di ringraziamento all’inizio del pasto, ma non posso chiedergli di aspettare 10 minuti prima di lasciarlo iniziare a mangiare; a un bambino di 6 anni posso chiedere di apparecchiare e sparecchiare quotidianamente la tavola; a un bambino di 9 posso chiedere di appendere i panni della biancheria in modo ordinato e di piegarli una volta asciutti; a un ragazzino di 13 anni posso chiedere di cucinare in autonomia per tutta la famiglia, fare dei lavori che richiedono una certa forza fisica e precisione come potare delle piante, tagliare l’erba del giardino o dipingere una stanza. Spesso all’inizio è molto più veloce per i genitori svolgere queste mansioni da sé. Chiedere collaborazione ai figli significa prendere il tempo per fare loro vedere come fare le cose e avere la forza per essere interiormente fermi davanti alle loro possibili opposizioni o lamentele.
Una mamma Olandese, che vive nelle colline di Gavi, ha fatto la scelta di mandare quotidianamente i suoi bambini a scuola in bicicletta, anche d’inverno e quando fa brutto tempo. I bambini hanno 7, 9 e 10 anni. Il percorso, lungo 5 km, ha parecchie salite e discese. I bimbi arrivavano a scuola accaldati, con le guance rosse e la soddisfazione in volto. Questa scelta, che pone i bambini nella situazione di dover fare una quotidiana e non indifferente fatica, apparve inizialmente molto irresponsabile agli occhi delle maestre e dei genitori dei compagni di classe che si attivarono per organizzare dei passaggi all’andata ed al ritorno.
La mamma olandese spiegò loro che era davvero felice del fatto che i suoi bambini avessero ogni giorno l’opportunità di pedalare fino a scuola, anche se prima di partire si lamentavano o non ne avevano voglia: ”La fatica che i miei bambini fanno nutre una forza invisibile agli occhi, che li sosterrà quando la vita porterà loro incontro salite ancora più ripide. Voglio trasmettere ai miei bambini che le piccole difficoltà sono parte integrante della vita e insegnare loro a non scappare o tirarsi indietro da una situazione un po’ scomoda o fastidiosa, perché nessun alto ideale o obiettivo può essere raggiunto altrimenti che con fatica, un po’ di dolore e perseveranza”.
Una scuola di campagna e sviluppo della resilienza
Tutti noi ci auguriamo che i nostri figli e i nostri studenti da adulti diventino individui resilienti.
La scuola in cui collaboro ha la fortuna di trovarsi attualmente in una cascina circondata da campi coltivati e boschi. Nella nostra realtà il mezzo migliore per permettere alla resilienza di apparire nell’anima dei bambini è senz’altro quello di dare loro una quotidiana occasione di sperimentare e vivere intensamente la campagna e il bosco, già a partire dai tre anni: non esiste il brutto tempo perché i bambini hanno un abbigliamento adatto. I bambini fanno delle passeggiate, non solo nel dolce sole primaverile ma anche se piove, nevica o c’è vento, sperimentando intensamente la forza e la bellezza di tutti gli elementi.
Una passeggiata nel bosco per un bimbo di 3 anni che ha appena imparato a camminare, è un susseguirsi di piccoli ostacoli da superare: il sentiero sale e scende in modo irregolare, lo stivaletto a volte si incastra nel fango o i rovi si agganciano alla giacca… È meraviglioso osservare i più piccini fronteggiare le loro prime difficoltà e osservare come sviluppino una sempre maggiore capacità e disinvoltura nel risolvere le piccole difficoltà. I maestri sono attenti a essere sempre pronti in caso di necessità, evitando però di aiutarli se, facendo uno sforzo, possono farcela da soli.
I bambini che giocano all’aperto nella natura, anche in situazioni climatiche poco favorevoli sono in generale meno esigenti e bisognosi di tante comodità. Sono flessibili e adattabili.
Nel profondo l’anima non può trovare una reale soddisfazione e appagamento nella comodità o nei piaceri corporei. L’anima nel profondo anela ad attivarsi, ad accrescere le capacità di entrare in relazione con gli altri uomini e la natura, anela a fortificarsi e diventare resiliente per poter agire in modo creativo trasformando la realtà in modo estetico.
Caterina Rossi Cairo
Collaboratrice della Scuola
Steineriana Intorno al Melo
Ottimo articolo, grazie, mi sto battendo da anni per cercare di far passare esattamente queste riflessioni, ai genitori che conosco, poi nella scuola convenzionale prima e ora nella scuola steineriana dove vanno i miei figli; dove con mia gran sorpresa e frustrazione ho trovato tanti troppi genitori “ovattanti” per non parlare di televisione, giochi elettronici e telefonini… un paradosso… grazie molte Caterina, grazie scuola Steineriana Intorno al Melo e grazie Germogli, con affetto, Gennaro da Impruneta, Firenze
da bambino cresciuto in campagna e senza essere mai stato avvolto nella bambagia, non posso che apprezzare questo articolo 🙂
Signora Caterina,
trovo il suo articolo molto interessante e “vero”. Sono un papà di tre bimbi e vivo in una piccola cittadina in etiopia. La questione di come educare i miei figli alla resilienza – cioè imparare a guardare la vita con speranza, indipendentemente dalle circostanze – rimane al centro dei miei pensieri. Sono nato e cresciuto in Italia, quindi capisco bene di cosa lei stia parlando. Qui tuttavia mi trovo a vivere il problema contrario. Il contesto sociale e culturale e lo stile di vita sono già per loro conto duri. L’essenziale non è una scelta, ma un obbligo e, delle due, la fatica è più quella di riuscire a trovare qualche “extra” affinchè i bambini riescano ad essere quello che sono, cioè bambini. Il problema, piuttosto che la bambagia, mi pare sia la troppa asprezza, la quale, come poi diceva lei nel suo articolo (…Il discernimento serve a capire quale tipo di esperienza può essere formativa e quale invece potrebbe mortificare l’anima del bambino provocando incertezza o paura…) rischia, in ugual misura, di bloccare la resilienza e provocare nel bambino una sorta di sfiducia ed impotenza davanti ad un contesto che schiaccia l’individuo.Non mi sono dato delle risposte… le sto ancora cercando. Mio figlio più grande ha 6 anni, il più piccolo 10 mesi. Immagino che Resilienza non sia un semplice “sopravvivere alle difficoltà”, perchè si può sopravvivere ma diventare più cattivi, pieni di astio e rancore verso quelle persone e situazioni dalle quali ci sentiamo minacciati; immagino dunque Resilienza non sia semplicemente una corazza che ci permette di essere “centravanti da sfondamento” nella vita. Mi pare essa abbia più a che fare con la certezza interiore che una persona ha di valere, indipendentemente da quel che sa fare, dagli obiettivi che riesce a raggiungere, dai successi che può accumulare o dai fallimenti, dagli errori e dalle meschinità tipicamente umane che ogni tanto, a volte ogni “spesso”, ci segnano. Ho l’impressione che il punto di partenza di questo cammino sia una relazione di amore e stima verso il bambino. Sono con lei totalmente quando dice che “…In Italia, fino agli anni Cinquanta la vita stessa garantiva ai giovani la possibilità di sviluppare questa forza interiore: in città come in campagna…”, e sono convinto che vi sia un ulteriore fattore che fa la differenza: fino a qualche decennio fa i bambini avevano dei genitori presenti. Essi c’erano, non solo fisicamente, ma in tutta la loro dimensione relazionale genitoriale. Certo con le loro fatiche, i loro problemi, le loro scorciatoie umane… ma crescevano con il figlio, e il figlio con loro. Quando ero in Italia ho insegnato qualche anno nella scuola pubblica: confermo che i ragazzi tendono ad essere lasciati nella bambagia, ma il problema più grosso, a mio avviso, è che sono “lasciati”. La bambagia viene dopo, è un palliativo per la coscienza dei genitori. Mi creda, non è polemica la mia: oggi la vita è più complessa di qualche decennio fa, lo so bene, e gli adulti hanno più problemi a farvi fronte che i bambini. Lo vedo qui da me: il problema per una crescita resiliente dei miei figli sono principalmente io, incapace di essere autenticamente resiliente davanti alle sfide della mia, di vita. Grazie per la riflessione e per la possibilità di riflettere.
Con la speranza che sempre più voci possano unirsi a questo coro, che sempre più cuori possano condividere questi pensieri e che sempre più bambini possano di conseguenza ricevere il dono della scuola Waldorf, ringrazio per questo bell’articolo.