_ di Alessio Gordini
Pokemon Go, il nuovo “gioco social” scaricato quest’estate in una sola settimana da 100 milioni di possessori di smartphone, ha conquistato immediatamente le prime pagine dei giornali, online e stampati. Ancora oggi quotidianamente 30 milioni di persone attivano il loro dispositivo mobile per andare a caccia dei personaggi del vecchio gioco lanciato nel 1996 e tornati a nuova vita grazie ai moderni telefonini. Una moda o un salto evolutivo dei giochi virtuali, un giochino virtuale innocente o uno strumento di distrazione dalla realtà e quindi una consistente minaccia alla consapevolezza del reale di giovani e non solo?
Gli strabilianti, prodigiosi risultati della tecnologia, ora largamente alla portata di mano di tutti e, per giunta, usando quello che nacque pochi anni fa come un semplice telefono portatile, sono manifestazioni della straordinaria, meravigliosa potenza del pensiero umano. Un pensiero che oggi, trainato dalla prospettiva di enormi guadagni, non sempre produce il bene per chi fruisce dei suoi prodotti. Anzi, spesso questi prodotti sono veri e propri strumenti diseducativi, nel senso che, se s’intende l’atto dell’educare nel significato di trarre il bene fuori dall’essere umano che si sviluppa, questi strumenti al contrario producono una lunga serie di effetti negativi. Se, poi, pensiamo che questi strumenti per un adulto sarebbero da evitare, cosa implicano per un bambino? E quali sono le principali, inevitabili conseguenze che derivano dal loro uso? Le seguenti riflessioni nascono dal recente successo planetario di uno di questi prodotti e sulla base di ciò che si sta prefigurando come un orizzonte sempre più vicino.
Nell’ultimo mese si è sentito parlare sempre più frequentemente del nuovo fenomeno Pokemon Go, un’app per lo smartphone che permette di giocare con i personaggi creati nel 1996 dalla fantasia dell’informatico giapponese Satoshi Tajiri per un famoso produttore di videogiochi. Il gioco originale consisteva in alcune attività, prima tra tutte quella di catturare il maggior numero possibile di Pokemon, cioè di un certo tipo di personaggi immaginari, interagendo con i tasti della consolle e lo schermo del videogioco, sul quale veniva visualizzato un ambiente immaginario popolato da questi esseri immaginari.
Anche nella versione moderna di quello che allora, nell’ambito dei videogiochi, fu uno dei maggiori successi commerciali di sempre, si tratta innanzitutto di localizzare e catturare questi personaggi immaginari. Ma la grande novità è rappresentata dal fatto che il gioco odierno avviene mediante l’interazione con il mondo reale, cioè sfruttando le possibilità di quella che viene definita “realtà aumentata”: il giocatore, infatti, usando la telecamera del proprio smartphone, può visualizzare sullo schermo ciò che gli sta intorno; e fin qui, niente di particolarmente innovativo. Ma, assieme a ciò che viene ripreso dalla telecamera, il gioco Pokemon Go visualizza sullo schermo anche i Pokemon, se la telecamera è indirizzata verso il luogo fisico in cui i programmatori del nuovo gioco hanno stabilito che si trovi uno di questi personaggi immaginari. Quindi, attivando il gioco sullo smartphone e camminando per la strada, oltre a marciapiede, alberi, persone e tutto ciò che la telecamera riprende dal mondo reale e in tempo reale, è possibile che venga visualizzato sullo schermo anche un Pokemon, apparentemente accanto a un albero, sul marciapiede, in un cortile e così via.
Questa è, come già detto, una delle applicazioni pratiche della “realtà aumentata”, di cui troviamo, su Wikipedia, la seguente definizione: “arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi”. Quindi si tratta (ma solo apparentemente), di un’aggiunta, un aumento dell’esperienza sensoriale, grazie al conferimento di “informazioni”. Queste vengono presentate, nel caso del Pokemon Go, prevalentemente in forma di immagine sullo schermo dello smartphone; e siccome non si può vivere tutto il giorno con gli occhi incollati allo schermo, il gioco produce vibrazioni e segnali acustici per informare il proprietario dello smartphone sulla vicinanza (immaginaria) di una di queste entità (immaginarie).
Ora che il quadro è sufficientemente chiaro, cerchiamo di vedere cosa si nasconde in realtà dietro la sua tela.
Partiamo dalla cosiddetta realtà aumentata. Proseguendo sulla stessa pagina di Wikipedia, troviamo che “le informazioni ‘aggiuntive’ possono in realtà consistere anche in una diminuzione della quantità di informazioni normalmente percepibili per via sensoriale, sempre al fine di presentare una situazione più chiara o più utile o più divertente”. è il caso, per esempio, della cosiddetta realtà virtuale, impiegata per intrattenimento (quando viene visualizzato, su uno schermo che riempie il campo visivo, una situazione fittizia, che riproduce solo alcuni aspetti del mondo reale, o che produce una situazione completamente immaginaria), oppure nel caso di operazioni chirurgiche a distanza (eliminando tutte le percezioni che potrebbero essere fuorvianti o inutili, ed enfatizzando quelle utili e importanti), o ancora nel caso dei veri e terribili bombardamenti in azioni di guerra (riproducendo solo il mirino e l’obiettivo da colpire, e in modo del tutto privo di ogni aspetto che potrebbe coinvolgere emotivamente colui che preme realmente il grilletto, facendo esplodere una bomba reale su persone reali).
Anche sullo smartphone, quando usiamo l’ormai banale navigatore mentre guidiamo l’automobile, siamo fruitori di una realtà che è aumentata (compaiono i nomi delle vie, le distanze, i tempi di percorrenza, le strade alternative e così via, che in effetti non appartengono alle percezioni sensorie ordinarie), ma che è contemporaneamente anche una realtà diminuita, poiché le strade non sono riprodotte in modo realistico, perché mancano molti dettagli ambientali come alberi, nuvole, case e così via, e perché sono assenti tutte quelle percezioni del mondo reale che sono inutili al fine di giungere a destinazione (per esempio case, alberi e pedoni sui marciapiedi), ma anche tutte quelle percezioni che sono di vitale importanza (come il pedone che ci attraversa la strada mentre controlliamo il tragitto sullo schermo del navigatore).
Purtroppo, tutte queste distinzioni terminologiche, tra aumento e diminuzione della realtà, lasciano capire che, nell’ordinaria comprensione di questi fenomeni, non viene assolutamente colto l’essenziale, che differisce in modo drastico da ciò che viene fatto intendere. Se consideriamo la percezione nella sua realtà, infatti, dobbiamo riconoscere ai nostri cinque sensi un ruolo assolutamente fondamentale nel contatto con ciò che denominiamo propriamente “realtà”. In particolare, quando usiamo uno smartphone, così come quando impugniamo un martello, è il rapporto veicolato dai sensi che ci permette di entrare in contatto con quella che possiamo chiamare, nel vero senso della parola, la “realtà” dell’oggetto. Per esempio, quando ho in mano un martello, il mio senso del tatto, quello della vista, dell’equilibrio e così via sono di fondamentale importanza per rapportarmi in modo corretto con l’oggetto stesso, per afferrarne il più possibile la sua “realtà”.
Allo stesso modo, quando impugno uno smartphone, mi rapporto in modo diretto con il suo schermo, inteso come superficie di plastica lucida, liscia, piatta e regolare, attraverso il tatto e la vista; con ciò che appare come forme e colori, immediatamente sotto alla sua superficie, attraverso il senso della vista; con il suo “corpo”, quel parallelepipedo di plastica e metallo più o meno sottile, e largo poco più dello schermo, sempre tramite il tatto e la vista; gli eventuali pulsanti da premere, con la loro resistenza al movimento, la loro forma stretta, eccetera. Quella è la vera realtà. Se considero invece quello che appare sullo schermo e che io utilizzo come funzionalità, invece, non è più realtà. Mi spiego meglio: l’icona dell’app che uso per inviare e ricevere messaggi, per esempio l’icona di WhatsApp, Gmail, o di qualsiasi altra app che usiate voi, è costituita da un insieme di colori sullo schermo. Sappiamo che posso toccare lo schermo in corrispondenza di quella icona e che l’app inizia a “funzionare”. Ma la realtà dell’icona sono solo i suoi colori, non il fatto che sia l’icona di un’app.
Per convincercene, basta scattare una foto dello schermo (in gergo, uno screenshot) e visualizzarlo sullo schermo stesso. Ora posso toccare quanto voglio i colori di quella che chiamavo icona: i colori continuano a essere realtà, ma l’app non parte, perché io sto toccando solo la foto di quei colori, e non quella che chiamo icona. L’icona è davvero un’icona solo quando, interagendo con i suoi colori, lo smartphone si comporta come se fosse un’icona. Le uniche cose reali nel funzionamento di un’app tramite la sua icona, mentre la uso, sono tutti i processi elettronici all’interno dello smartphone, che rimangono del tutto fuori dai miei sensi ordinari, oltre al cambiamento dei colori sullo schermo (le mie percezioni visive) e le mie percezioni tattili derivanti dall’uso dello smartphone. Tutto il resto (scrivere un nuovo messaggio, per esempio) ha un reale senso (cioè come messaggio) solo dentro di me, solo per la mia comprensione intellettuale di ciò che i miei sensi (vista e tatto) mi stanno convogliando. Di realmente percepibile coi sensi, infatti, c’è solo il contatto tra le dita e lo schermo e la vista della scritta, mentre di non percepibile (ma che avviene sempre in modo non virtuale, e slegato dalla mia interiorità) c’è l’insieme di processi elettromagnetici legati alla composizione e alla conservazione del messaggio nella memoria dello smartphone.
Facciamo un altro esempio per avvicinarci a Pokemon Go: mentre un mio amico balla sul marciapiede, io lo riprendo col mio smartphone. Se intanto guardo lo schermo, vedrò una certa serie di immagini. Finito il ballo dell’amico, quando visualizzo il video appena registrato, rivedo esattamente la stessa cosa che ho già visto sullo schermo dello smartphone. La realtà, in questo caso, sono i colori sullo schermo e, se vogliamo, le immagini dell’amico che balla, ma quello che vedo non sta assolutamente accadendo nella realtà, giusto? Quindi se consideriamo ciò che vedevo sullo schermo mentre riprendevo il mio amico che ballava, possiamo concludere che mi relazionavo realmente, attraverso i sensi, solo con quelle diverse immagini sullo schermo, oltre che con l’oggetto che tenevo in mano: lo smartphone. Non mi relazionavo direttamente con l’amico che ballava.
Questi fatti, che possono sembrare solo pignoleria metafisica per chi rimane alla superficie della realtà, sono stati indagati recentemente da molti ricercatori delle neuroscienze. Per esempio, a diversi gruppi di studenti è stato fatto l’invito, in un museo, di usare delle fotocamere digitali per riprendere le opere esposte, o alcuni dettagli che li colpivano particolarmente. Alcuni studenti hanno accolto l’invito, altri no. Il giorno dopo, a tutti gli studenti sono state fatte domande sulle opere presenti nel museo, invitandoli a parlare di ciò che li aveva colpiti maggiormente. Risultato: quelli che avevano usato la fotocamera ricordavano meno cose di quelli che non l’avevano usata, pur avendo fotografato ciò che li colpiva di più (vedi l’articolo su Psychological Science, febbraio 2014, vol. 25 no. 2, pp. 396-402: “Point-and-Shoot Memories. The Influence of Taking Photos on Memory for a Museum Tour”, Linda A. Henkel, Fairfield University).
Questo esperimento dimostra ancora una volta, in modo più obbiettivo, che l’interazione reale che avviene durante l’uso dello smartphone è quella con lo smartphone, e non con ciò che lo smartphone mi convoglia dalla realtà circostante. In altre parole, io conservo soprattutto l’esperienza di ciò che i miei sensi mi forniscono direttamente: tatto, vista, udito e così via. Riprendendo l’amico con lo smartphone, cosa sperimento direttamente coi miei sensi? Solo lo smartphone: esso pesa, ha una consistenza, una ruvidezza, suona, si colora… a volte, addirittura, vibra. Ovviamente, dopo aver osservato sullo schermo il mio amico che ballava e che io stavo riprendendo, ricorderò anche il ballo del mio amico; ma l’uso dello smartphone mi ha distratto notevolmente rispetto a ciò che avrei potuto sperimentare e conservare tra le mie esperienze, se avessi sperimentato coi sensi – direttamente – il mio amico. Con lo smartphone accade inevitabilmente che, toccandolo e usandolo, ho un rapporto preferenziale con l’oggetto, mentre quella che indichiamo solitamente come realtà rimane solo sullo sfondo, fruita soprattutto nel senso di rappresentazione, piuttosto che prevalentemente di percezione.
Stabilito questo, possiamo capire quanto sia devastante per un bambino usare spesso uno smartphone per rapportarsi con la realtà: riprendendo immagini, osservando e ascoltando registrazioni, scrivendo e leggendo messaggi… il bambino vive esperienze che hanno un carattere di realtà solo interiormente, mentre per quel che riguarda il carattere di esperienza sensoria diretta si tratta solo della relazione con un parallelepipedo lucido e multicolore tenuto in mano e toccato in vari punti della sua superficie. Si tratta quindi di un rapporto con la realtà che taglia fuori dalla percezione diretta tutto ciò che si può chiamare realmente esperienza della vita (cioè il rapporto diretto con le percezioni sensorie dell’esistenza propria e altrui), e che favorisce nel bambino soprattutto un’attività interiore di rappresentazione, di memoria (non di immaginazione, non di fantasia, perché i video, le foto e i giochi sullo smartphone impongono al bambino ogni singola immagine, effetto ormai noto della televisione). Si potrebbe far presente che questa attività di rappresentazione imposta dall’esterno, quindi essenzialmente intellettuale, sia comunque un’attività con una sua specifica valenza. Certo, ma è comunque innegabile che si tratti di un’attività non adatta prima dell’adolescenza, perché fa ritirare eccessivamente l’io nell’interiorità (infatti è solo lì che il bambino, con lo smartphone, vive le esperienze) e a lungo andare rende essenzialmente egoisti.
Si potrebbe obiettare che anche senza smartphone l’essere umano viene impressionato dalle immagini, come quella degli alberi che ci circondano quando semplicemente camminiamo in un bosco, senza poter avere un contatto diretto con gli oggetti delle nostre percezioni. Certo, ma l’avere in mano quell’oggetto (smartphone, fotocamera, videocamera, macchina fotografica analogica ecc) che media tra la realtà e noi stessi ci costringe a essere più rivolti (anche se inconsciamente, tramite il tatto e la vista) a quell’apparecchio, anziché agli alberi intorno a noi. Che lo vogliamo o no, veniamo pesantemente distolti, impediti dall’avere un contatto autentico con il bosco, sebbene vi stiamo camminando dentro: ripensando all’esperimento del museo possiamo farci una corretta rappresentazione di quest’ultima affermazione. Per un bambino questo è drammaticamente più importante, rispetto a un adulto, e tra breve cercherò di chiarirne i motivi. Ma per il momento pensiamo, in generale, a quanto sia determinante il fatto che i suoni provengano (con tutte le loro qualità) da ogni direzione, quanto sia determinante la consistenza del terreno sotto i nostri passi, quanto gli odori ci uniscano agli elementi intorno a noi, quanto sia importante che la voce dell’amico provenga dalle mie spalle perché è realmente dietro di me, anziché sapere che l’amico non c’è ma, nelle cuffie, lo sento come se fosse dietro di me, e così via. Sappiamo davvero quanto sia determinante tutto ciò per l’esperienza della realtà, e dunque per l’effetto educativo dell’una o dell’altra esperienza?
Torniamo a Pokemon Go, e capiamo quanto sia falsa l’espressione realtà aumentata: di tutta la realtà, quando guardo lo smartphone giocando a Pokemon Go, c’è essenzialmente lo smartphone, percepito fuori dalla mia interiorità, e ciò che vive dentro di me come rappresentazione del mondo circostante, dopo averla vista sullo smartphone, compresi gli eventuali Pokemon. Quindi non è una realtà aumentata: è diminuita, almeno nel senso della vista, poiché ne ottengo una rappresentazione limitata, mentre tutte le altre dirette percezioni sensorie sono offuscate dall’oggetto, oltre che dall’illusoria immagine del Pokemon che salta e scappa.
Ora, quest’illusione non vive proprio come tale, nell’immaginario di chi gioca a questo gioco. Per esempio, una carissima persona mi raccontava di essere sul lavoro e di essersi chiesta, assieme a una collega, dove fosse finita una terza persona con cui stavano svolgendo un lavoro. Hanno dovuto aspettarla per un po’, perché senza di lei non potevano proseguire. Quando è tornata si è giustificata dicendo “Scusatemi, ma mi avevano detto che ce n’erano cinque o sei…”, al che l’altra le ha chiesto “Aah! Ne hai preso qualcuno?”. Se guardiamo la realtà dei fatti con un minimo di coraggio, constatiamo che la persona in questione è uscita dallo studio, in cui stava lavorando con altre due colleghe, e si è recata realmente in un luogo preciso, in strada, in cui non c’era nulla di reale, e per non fare alcunché di reale! Possiamo parlare di piena consapevolezza dell’illusione? Mi chiedo se, durante un lavoro con altri colleghi, andremmo tutti davvero in strada, in un luogo preciso, se sapessimo chiaramente che in quel luogo non c’è proprio assolutamente nulla di reale.
Si tratta di un rapporto con la realtà che tende fortemente ad attribuire un carattere di realtà a cose che sono soltanto immaginarie. Quando vado in quel luogo preciso, vedo realmente sullo schermo dello smartphone tutti gli oggetti realmente circostanti, e in più vedo realmente sullo schermo l’immagine di un Pokemon, che viene realizzata grazie al lavoro di una squadra di informatici. Il fatto che queste entità immaginarie siano presentate visivamente rende l’illusione quasi perfetta. Anche la televisione, YouTube e i contenuti visivi in genere si basano fortemente su questo carattere di realtà parziale, modificata, aumentata e diminuita che rende credibili anche le cose più false e assurde. Tutti noi tendiamo tantissimo a credere a ciò che vediamo. Tutta la nostra civiltà, dallo sviluppo scientifico al potere politico, si basa fortissimamente sul rapporto visivo con ciò che viene percepito come realtà.
Se per dei trentenni, quarantenni (che nel 1996 avevano tra i 10 e i 20 anni, quindi il target commerciale dei Pokemon originali) è così entusiasmante giocare a Pokemon Go, c’è da farsi un paio di domande: quanto è stato risolto, o quanto è stato soddisfatto, nella loro adolescenza, quel bisogno di un contenuto immaginativo, cioè di creatività interiore, la cui esperienza intensa a quell’età li avrebbe resi immuni dal cadere in questa trappola commerciale da adulti? Seconda domanda: quanto vengono ritenuti immaginari questi contenuti, se si arriva a sbattere realmente contro una macchina della polizia reale, o se ci si assenta realmente dal lavoro, se si va in giro realmente di notte, se si spendono realmente dei soldi, e così via, per “catturare” (immaginativamente) o “allenare” (immaginativamente) o comprare (realmente!) un Pokemon, che è solo immaginario? Nel caso che venga da pensare che stia facendo un gran baccano per un nonnulla, consideriamo le cifre seguenti (fonte: ilsole24ore.it, 15 luglio 2016). Negli Stati Uniti, il sesto giorno dopo la pubblicazione, il gioco ha raggiunto un picco di 21 milioni di utenti. Dopo 9 giorni l’app era stata scaricata da 65 milioni di utenti, con un tempo medio di gioco di 43 minuti al giorno. E la capitalizzazione in borsa della casa produttrice del gioco è aumentata, nella prima settimana, di 7 miliardi di dollari.
Una riflessione: quale società del futuro stanno costruendo le major del “gioco virtuale” se questo mercato coinvolge simili numeri di cittadini immediatamente irretiti da un simile gioco di massa? E quali conseguenze di profitti e indirizzamento politico e sociale potranno ricavarne per il futuro?
Prima di dirigere lo sguardo sui bambini, consideriamo la prima domanda: se un adulto che vent’anni fa giocava con un videogioco ha il bisogno di nutrirsi ancora di questo tipo di contenuti, interferendo in modo così potente con la realtà (sulle autostrade degli Stati Uniti ci sono avvisi per dissuadere dal gioco mentre si guida, mentre il Codacons sta proponendo una limitazione all’uso del gioco, tutto a causa dell’impennata degli incidenti stradali), possiamo chiederci qualcosa sulla sua passata educazione? L’ho appena fatto e provo a rispondere.
Ogni bambino ha un innato bisogno di ascoltare racconti, o di ricevere contenuti che lui stesso possa arricchire mediante la propria immaginazione. Questo bisogno costituisce la base del pensiero creativo, che si rivela spesso più efficace di qualsiasi bagaglio nozionistico (sono ormai note le scoperte delle neuroscienze in merito, così come la celebre e più volte citata frase di Einstein, “Se vuoi che tuo figlio sia intelligente, raccontagli fiabe. Se vuoi che sia più intelligente, raccontagli più fiabe”).
Ma l’attività immaginativa, che riveste un racconto con un contenuto personale, e che attua un legame emotivo con i contenuti ascoltati, è anche e soprattutto alla base dell’educazione morale: è tramite le fiabe, e le narrazioni in generale, che si sviluppa l’empatia, l’immedesimazione e il rispetto nei confronti dell’altro (proprio in questi giorni, sull’ultimo numero di Le Scienze compare la recensione di un articolo scritto da ricercatori canadesi che dimostrano, mediante i metodi d’indagine della ricerca neuroscientifica, l’importanza della narrativa per lo sviluppo dell’empatia e della cosiddetta “teoria della mente”, che consente di immedesimarsi nell’altro e di attuare una serie di controlli del proprio comportamento per agire in modo moralmente corretto, anche quando ciò non risulta spontaneamente istintivo).
Se priviamo i bambini e i ragazzi di simili contenuti, poiché riduciamo la vita scolastica a mera istruzione, trascurando tutto ciò che porta alla vera, completa educazione dell’essere umano, li riempiamo appunto di nozioni, ma non permettiamo loro di agire in modo immaginativo, creativo. Non farlo da piccoli porta a volerlo fare da grandi, è un bisogno innato dell’essere umano: si vede quotidianamente, coi bambini, quanto sia forte il loro bisogno di credere a tutto ciò che si immagina e che non ha carattere di realtà sensoria. Quanto è facile convincere un bambino di un certo fatto, sebbene ciò che gli raccontiamo sia addirittura in contrasto con le sue esperienze sensorie? Nei bambini, l’immaginazione ha il sopravvento sulle percezioni sensorie perché con queste ultime non si è ancora costruito un insieme di esperienze sufficientemente coerenti e complete, oltre all’incapacità di formulare un giudizio secondo i nessi causali. Se questo processo immaginativo non viene nutrito a sufficienza da bambini, ne rimane il bisogno: e allora droghe, videogiochi e interazioni “aumentate” con la realtà possono avere il sopravvento anche nei futuri adulti, come sta accadendo in modo tragicamente pervasivo al giorno d’oggi.
L’adolescente ha bisogno di contenuti ideali, di elevate idee morali, così come nella prima infanzia si ha bisogno di azioni umane da imitare, e da bambini si cerca un’autorità a cui affidarsi nella sfera delle azioni concrete e dei sentimenti. Se questi ideali mancano nella vita concreta, la narrativa, sebbene non possa colmare questa mancanza, riveste un ruolo fondamentale (pensiamo a come i ragazzi abituati a leggere possano entusiasmarsi per le grandi biografie, o per storie di vita che mostrano la forza d’animo e la moralità dell’essere umano). La capacità immaginativa gioca ancora un ruolo fondamentale nel rendere così preziosi i contenuti narrativi. Se mancano entrambe queste facoltà (ideale morale e immaginazione), si cercano l’ideale e l’immaginario insieme, ma fuori dalla realtà: appunto nelle droghe, nei film ricchi di effetti speciali… per molti ragazzi i capolavori di una volta sono semplicemente noiosi: hanno un enorme valore umano, interiore, che però questi ragazzi non riescono a percepire, perché in prima istanza non riescono a concepirlo interiormente.
Si potrebbe pensare che qui ci si scagli contro lo smartphone o la tecnologia in generale, ma il fatto importante è soprattutto la questione dei tempi evolutivi. Così come sappiamo che certe sostanze sono dannose per il corpo (per esempio un fritto per un neonato, il cibo spazzatura per un bambino e le droghe per un adolescente, e anticipando i tempi tutto ciò risulta ancora più dannoso), allo stesso modo bisogna rispettare i tempi per i contenuti dell’anima. Quindi, è giustissimo che un adolescente si confronti con questi mezzi tecnologici, ma a due condizioni. Primo, che abbia una chiara rappresentazione del funzionamento di ciò che sta usando: che sappia, per esempio, che si tratta sempre di un sistema combinatorio, che l’unica intelligenza è quella del programmatore, e che dire “lui non stampa” oppure “lui capisce quello che stai cercando”, riferendosi ai computer, è semplicemente una sciocchezza, un’espressione puerile priva di maturità (ma sì, lo facciamo tutti!). Secondo, che non possa abusarne: sappiamo benissimo che gli adolescenti cercano con tutta l’anima di comunicare coi coetanei, è un bisogno vitale. Su un cosiddetto “social network” come Facebook, che di social ha solo la condivisione di informazioni ma non di contenuti dell’anima, un adolescente vive alla ricerca di quella comunione animica che si può attuare solo stando per un certo tempo realmente l’uno vicino all’altro. Ed ecco che, alla ricerca di quel contatto, irrealizzabile sul network, fioriscono le emoticon e tutto ciò che vorrebbe colmare quell’incolmabile lacuna, nascono i malintesi più assurdi e si cade spesso preda di un istinto che mai si permetterebbe di manifestarsi in una comunicazione dal vivo: sappiamo bene quanto i politici e i vip la sparino spesso così grossa da dover vergognosamente ritrattare le proprie affermazioni. Ma soprattutto, siccome l’anima non viaggia bene su internet, alla ricerca disperata di quest’elemento umano i ragazzi vengono risucchiati dal network, perché inconsciamente cercano instancabilmente l’introvabile, come un minatore che cerca l’oro in una miniera di carbone.
Se infine guardiamo ai bambini, non possiamo proprio permettere che si abituino ad avere un rapporto con la cosiddetta realtà aumentata, per almeno due motivi fondamentali.
Primo, li priviamo di quell’esperienza reale, sensoria, che potrebbe renderli adulti saldi, coi piedi per terra e, al contempo (se oltre a favorire le percezioni sensorie li nutriamo anche di contenuti che favoriscono la loro attività immaginativa), capaci di empatia e pensiero creativo. In altre parole, non possiamo permettere che la realtà sensibile non sia percepita dai nostri bambini, perché tutto ciò che percepiscono i bambini è, per loro, formativo. Vengono formati gli organi, quando sono piccoli. Viene formata la sensibilità emotiva, quando sono bambini un po’ più grandi. Viene stabilito un autentico contatto con la verità, dopo l’adolescenza. E tutto ciò forma, in un lungo percorso che inizia nei primissimi anni di vita, un pensiero aderente alla realtà. In altre parole, abituare un bambino a interagire con una realtà solo simulata (come sullo schermo di uno smartphone), solo mediante gli occhi e un lieve tocco delle dita (come avviene sullo schermo dello smartphone) è assolutamente limitativo per un bambino! è un’esperienza combinatoria, predeterminata; ed è poverissima: è una tetra nullità, anche in confronto a soli cinque minuti passati costruendo un castello di sabbia in riva al mare, correndo in un bosco o stando seduti accanto al nonno che racconta un episodio di quand’era bambino.
Secondo, l’immaginazione costa fatica, è una vera attività interiore, mentre un contenuto audiovisivo percepito dall’esterno è accattivante, rende passivi e attrae in modo ipnotico (riuscite a non guardare mai uno schermo di fronte a voi, su cui scorrono immagini in movimento, mentre siete a un aperitivo con amici? anche se non volete guardarlo?). Un bambino, qualsiasi bambino, preferisce quasi sempre un cartone animato a un racconto. Le immagini di quest’ultimo nascono nell’anima e in quanto tali sono delicate, vanno create, rafforzano poderosamente l’individualità e, in quanto generate nell’anima, sono massimamente umane. Quelle del cartone animato sono prepotenti, vengono semplicemente accolte passivamente, così come sono, conformano il bambino a uno standard e, provenendo dall’esterno, non hanno alcun carattere animico. Il cartone animato è fondamentalmente un potente strumento per limitare, conformare e rendere passiva l’immaginazione del bambino.
Ma almeno il bambino (solo dopo una certa età!) distingue il cartone animato dalla realtà, mentre la micidiale accoppiata della rappresentazione del mondo reale (ripresa con telecamera e riprodotta sullo schermo di uno smartphone) con un contenuto irreale come un Pokemon priva veramente il bambino di un sano rapporto con la realtà. E questa affermazione sarà ritenuta assurda finché considereremo i bambini come degli adulti di piccole dimensioni.
Se, oltre a un cartone animato, che ha le caratteristiche sopra descritte, proponiamo ai bambini un contenuto di cosiddetta realtà aumentata come quella offerta da Pokemon Go, plasmiamo la loro anima in modo che, pian piano, si spenga la loro innata ricerca dei contenuti immaginativi della realtà. Questo fatto è di importanza vitale, assoluta: impediamo loro di conoscere, cioè di legare un’attività interiore, concettuale, a un’attività esteriore, percettiva. La Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner, basata proprio sulla polarità di percezione e concetto (uno dei più elevati e approfonditi studi del pensiero umano mai realizzati) non lascia dubbi sull’importanza della nascita dei concetti, cui si giunge con un atto creativo interiore, proprio a partire dalle percezioni sensorie.
L’accoppiata tra rappresentazione della realtà percettiva e rappresentazione immaginaria è enormemente più dannosa di un cartone animato, per un bambino, perché l’attività passivizzante dell’immaginazione avviene in un contesto molto più vicino alla realtà, rispetto a quando si guarda un cartone. Qualunque bambino, infatti, percepisce l’albero reale davanti a sé, e la sua fedele immagine sullo smartphone; tuttavia la presenza di quel contenuto irreale abitua il bambino a fruire passivamente di contenuti immaginativi, come di fronte a un cartone animato, ma proposti all’interno della realtà. Cosa cercherà quando, adolescente, sperimenterà l’assenza di un ideale morale in quella stessa realtà, come oggi avviene quando ci si confronta con le bassezze della sete di potere e della corruzione, con le tragedie delle guerre, dei migranti, del terrorismo? Un caro amico mi ha fatto notare lo sconcertante dilagare del fenomeno di Pokemon Go proprio nel mezzo degli eventi più nefasti dell’ultimo mese: la strage di Nizza, il golpe in Turchia, le stragi in Afghanistan e in Iraq e l’attentato di Monaco.
Di fronte a tanta miseria dell’umanità, che triste rifugio! E tutto ciò viene accolto passivamente, senza che l’anima sappia proporre nulla di meglio. Senza libertà. Che senso ha tutto ciò?
Questo è uno dei motivi per cui, come insegnanti e genitori, vogliamo agire affinché l’educazione tenga conto anche di questi aspetti e, fondandola sull’importanza di essere educati in modo completo nel corpo, nell’anima e nello spirito, si possa compiere un passo verso un’umanità più fraterna, più equa e più libera.
Alessio Gordini
maestro di una III classe
della Scuola Waldorf
“Cometa” di Milano
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